in DeriveApprodi (2002), nr.
22, pp. 137 - 143
L’Europa non ci fa sognare. Intervista a
Rosi
Braidotti
di Rutvica Andrijasevic
1. Nel
tuo ultimo libro Nuovi soggetti nomadi presenti quello che
chiami il
progetto europeo postnazionale. Qui affermi la necessità di un
nuovo
immaginario sociale europeo e parli delle strategie politiche per
realizzarlo.
Ci spieghi un po’ meglio questo progetto?
Non sono la
sola a credere che ci voglia una
riflessione più approfondita sulla questione della cittadinanza
europea. Per
esempio L’Istituto Universitario Europeo di Fiesole e la London
School
of
Economics, comprese tantissime altre università in giro per il
mondo, ci stanno
lavorando in maniera molto seria e molto legalistica. Quando ho
cominciato a
lavorarci da filosofa, diciamo da un punto di vista sociale,
cioè di stampo più
culturale, mi sono trovata molto in imbarazzo perché sono cose
molto avanzate,
molto tecniche, o addirittura protocollari. Un po’ ho abbandonato
la
discussione tecnica perché non ho le competenze necessarie per
affrontarle, e
perché mi sono resa conto che la massa di lavoro che loro
stavano facendo non
passa nella cultura pubblica, e che non se ne parla molto proprio
perché è così
tecnica e giuridica. E da lì che ho cominciato una riflessione
su come mai
l’immaginario sociale sull’Europa è così
povero: non ci
fa sognare e non ci
eccita. Ho iniziato a lavorare su come costruire un immaginario sociale
che ci
aiuti a prendere sul serio questa problematica. Questo è un
primo livello di
riflessione ed è collegato alla questione nazionalistica: come
si fa ad
accendere l’immaginazione della gente, a farla sognare, a far
sì
che un
soggetto di ricerca, un tema politico diventi una passione?
Perché il
nazionalismo ovviamente non è una cosa gradevole, ma
quell’immaginario non si
riesce a farlo scaturire se non c’è nulla che leghi, che
faccia
in modo che
questo campo di studi, questa realtà politica diventi una
passione. Alcuni
pensatori Sloveni dicono che l’Europa, come è immaginata
ora,
non funzionerà
mai proprio perché non accende l’immaginazione e che solo
l’identità nazionale
può farlo. Se, come dice Žižek, l’immaginario è
inevitabilmente connesso a
nazionalismi e ha radici, allora siamo nei guai. Ma c’è
tutta
una discussione
da fare sulla nozione dell’immaginario, partendo da Deleuze e la
sua
critica a
Lacan. Si apre così un altro campo di ricerca dove questo lavoro
si collega al
nomadismo filosofico e alla critica di quella griglia espositiva che
per
l’immaginario intende la rappresentazione collegata a un soggetto
identitario.
2. Tu
sottolinei la povertà dell’immaginario
Europeo e ti proponi di pensare e di risvegliare delle passioni per un
progetto
postnazionale diverso che, secondo te, appartiene al futuro. Tuttavia,
noi in
Europa stiamo già vivendo una realtà postnazionale.
Forse, allora, un progetto
centrato sull’aspetto postnazionale non basta più e va
ripensato?
L’idea di
postnazionale è fondata sui testi
originari di Altiero Spinelli. Io faccio una lettura teorica di quelli
che
erano i testi fondatori dell’Unione, scritti da ebrei o comunisti
antifascisti,
e che avevano identificato nella complicità fra lo Stato e una
certa destra il
cataclisma della Seconda Guerra Mondiale. E’ un tipo di pensiero
che io
collego
alla diaspora ebraica e all’antifascismo in Europa occidentale e
lo
considero una
fonte importantissima di ispirazione teorico-politica. Oggi non si
parla più
delle radici antifasciste di un certo tipo di pensiero politico.
E’
come se la
diaspora fosse stata sconfitta. Questo continente ha deciso di
scegliere
l’amnesia e l’oblio; la negazione della propria storia
è una
specie di capitolo
chiuso e io vorrei riaprirlo con il postnazionalismo che, per me,
è una critica
del razzismo di Stato. Come mai allora non se ne parla più se
l’Unione Europea
è nata da lì? Il mio postnazionalismo è fondato
sulle basi storiche che sto
rileggendo per due ragioni. Uno, per fare in modo che questi testi di
Spinelli
vengano letti. Spinelli era collegato alla famiglia Hirschman, quindi a
un’altra grossa fetta di storia sia della resistenza che della
diaspora
e
dell’olocausto, e ha un senso dell’Europa come terzo
spazio. Due, per
scuotere
le tendenze alla parificazione storica che io non capisco se sono
dovute al
revisionismo o all’amnesia. Per spiegarmi, questo tipo di
discorso, di
cui
Berlusconi è un eminente rappresentante, che dice che noi
abbiamo avuto il
fascismo e loro hanno avuto lo stalinismo e così siamo pari: noi
Auschwitz e
loro Gulag. Questa, secondo me, è una violenza storica. E’
una
forma sia di
ignoranza che di violenza epistemica che crea false simmetrie a quindi
fabbrica
illusioni. Quello che manca è la dimensione di uno spazio
europeo
postnazionalista nel senso di anti-statalista. Lo sottolineo proprio
perché il
nazionalismo demenziale di questo continente è la radice della
Seconda Guerra
Mondiale. Quindi l’Unione Europea nasce da questo
postnazionalismo che,
mi
preme sottolineare, non è transnazionalismo.
3. Tu
sostieni che il postnazionalismo è un
superamento degli Stati come li abbiamo percepiti, e recuperi le radici
antifasciste dell’Europa legate alla costruzione
dell’Unione Europea,
ma resta
il fatto che l’UE sta andando in un’altra direzione.
Perché
c’è una serie di
studi che dimostra come l’UE sta assumendo una serie di ruoli che
prima
erano
degli Stati nazionali, fra cui quello che maggiormente viene
sottolineato è la
questione dei confini, in particolare la riconcettualizzazione e il
rafforzamento dei confini verso l’est. Pensi allora che
l’interpretazione che
noi diamo della componente nazionale e al postnazionalismo dovrebbe
venire riesaminata
in relazione ai cambiamenti che stanno avvenendo a livello
istituzionale
dell’UE?
Tengo a dire
che non voglio fare del
postnazionalismo una questione identitaria: quando parlo di memoria
storica
parlo di soggettività politica. Io credo che la questione del
postnazionalismo
debba essere una dimensione, non dico formale, ma sicuramente giuridica
e
tecnica. Per me questo si riconnette alla questione della cittadinanza
europea.
La cittadinanza europea non può essere fondata su basi
nazionali, perché è
transnazionale. Quando io dico postnazionalismo a livello di
cittadinanza vuol
dire cittadinanze flessibili: uno non deve essere, come dice Paul
Gilroy, nato
qui, oppure del colore o della religione giusta, per appartenere a
quella
cittadinanza, perché il concetto di cittadinanza deve essere un
concetto di
partecipazione su basi negoziabili. Non si capisce perché la
cittadinanza deve
essere una cosa a tempo pieno al cento per cento. Questo concetto di
cittadinanza non l’ho inventato io ma sto citando qua il lavoro
di
Ulrich
Preuss. Da come lo percepisco io, il problema è che ci si
scontra con la
questione dell’identità, e qui si torna sulla questione
dell’immaginario. Noi
dobbiamo poter immaginarci (per questo credo che il nomadismo sia
l’unica
soluzione possibile per gli europei) una situazione in cui il tuo senso
di
cittadinanza, o meglio la tua cittadinanza nel senso di
soggettività giuridica
e politica, sia staccata dal senso di identità. Io sono
contraria a questa
chiusura per cui sei e appartieni: questa è una follia, è
una forma di
microfascismo. Geopoliticamente si tratta di una chiusura assoluta:
sono di
qui, vengo da qui, questa è la mia terra, questa è la mia
lingua e perciò
appartengo. Quindi, per me, il postnazionalismo è una critica
del soggetto
unitario dove per soggetto unitario intendo la cittadinanza, la
politica e la
questione identitaria. Per un europeo questo vuol dire mettere fine al
nazionalismo. Io vorrei scindere l’essere dalla cittadinanza: io
leggo
l’Europa
come un tentativo di aprire un varco fra questi due concetti e magari
anche
metterli in contraddizione. Ma questo implica un grosso salto di
qualità nella
nostra immagine di noi stessi, e come dici tu, questo lavoro non sta
succedendo
perché pochissimi o nessuno dei poteri politici attuali lo
può fare. Ed è per
questo che credo che la questione del postnazionalismo vada esaminata.
4. In merito
alla questione dell’immaginario e
dell’identità prima accennavi al fatto che sono temi che,
o non
sono affrontati
affatto, o sono affrontati in maniera troppo tecnica. Però
è anche importante
notare che a livello delle istituzioni europee (per esempio i documenti
che
escono dalla Commissione Europea) c’è una dimensione molto
legata
all’immaginario. Guardiamo ad esempio al discorso
sull’immigrazione e
sui
confini: attraverso un discorso molto populista si sta costruendo la
fortezza
Europa, simbolica e materiale, il che non vuol dire solo il
rafforzamento dei
confini ma anche la costruzione dell’appartenenza dei cittadini
europei
ad uno
spazio e ad un destino comune. Anche qui si sta costruendo un
immaginario
europeo però molto diverso da quello di cui parli tu. Come leggi
questi
cambiamenti in corso?
Il problema
è che questa Europa non ha potere
politico. L’Europa politica non si è fatta. Io trovo
paradossale
che dicendo
questo mi trovo alleata con Habermas. Un modo di rispondere potrebbe
essere che
la dimensione europea non può andare avanti perché non
c’è motore politico e
non c’è volontà di completare questa Unione con un
senso
di cittadinanza
globale ma flessibile all’interno di questa Fortezza. Se questa
volontà
politica non c’è, allora bisogna cominciare dicendo che
quello
che non sta
funzionando è che si sta smantellando l’idea di uno spazio
europeo
postnazionalista, reintroducendo l’idea di un’Europa delle
nazioni che
è
un’idea classica ottocentesca. Questo è quello che sta
succedendo sotto
l’influenza della destra. L’Europa delle nazioni,
l’Europa delle
regioni, non è
assolutamente uno spazio postnazionalistico, ma ipernazionalistico
all’estremo.
Perché non si riesce a fare un’Europa politica?
Perché
manigoldi come
Berlusconi hanno il potere di frenare questo processo privando, secondo
me, lo
spazio europeo di questa dimensione più progressiva, ma anche
più
trasformatrice, qualcosa che sarebbe davvero un processo di evoluzione.
Secondo
me, quindi, manca questa dimensione, per cui si può anche essere
d’accordo nel
dire che l’UE sta sbagliando, ma io preferirei dire non sta
succedendo
questo
processo, perché non c’è la volontà politica
di
portarlo avanti. Però per fare
la dimensione politica bisogna affrontare la questione della polizia,
la
questione della difesa, e la questione delle frontiere. L’Europa
non
ha, e
secondo me non dovrebbe avere, questa dimensione di autoprotezione, per
cui tutta
la questione delle frontiere è caricata da questo immaginario
politico molto
contraddittorio. La questione delle frontiere è uno dei grossi
disastri di
quello che sta accadendo in questa fase. Non credo che sia possibile
non avere
linee di distinzione sulle frontiere. Credo che nessun testo di
gestione (non
di politica) possa dire cancelliamo le frontiere: sarebbe
inimmaginabile. Tu
dici che l’UE ha rimpiazzato gli Stati nazioni, ma io vedo anche
gli
Stati
nazionali che utilizzano come pretesto la dimensione europea per
chiudere le
frontiere. La creazione dell’Europa come fortezza per me è
la
negazione della
dimensione europea.
5. Non
è una questione di cancellare le frontiere,
ma è che sulle frontiere si sta svolgendo una lotta anche per
quanto riguarda
l’immaginario. Le frontiere le possiamo interpretare come i
confini
materiali,
però i confini sono anche luoghi di una lotta
sull’immaginario
che sanziona
l’appartenenza simbolica e materiale.
In questo
caso per me viene meno l’immaginario
europeo. Sono d’accordo che l’immaginario è il luogo
di una
grande battaglia e
perciò l’arena di grandi scontri. La mia osservazione era
questa: all’interno
del lavoro dell’immaginario ci sono contraddizioni fra
rappresentazioni
che non
sono solo discorsive ma rappresentazioni materiali. In questo senso si
può
lavorare con Althusser, sulla dimensione classica
dell’immaginario. Il
problema
è che all’interno di questo non c’è un input
della gente che vorrebbe
trasformare quell’immaginario in qualcos’altro, per
esempio, di
nomadico, di
postnazionalistico, di aperto. Che questa dimensione qui non ci sia, me
ne sono
resa conto in maniera molto dolorosa a Rotterdam quando ho incontrato
Žižek. Il
suo immaginario è quello del primo Althusser, del primo Lacan:
va benissimo perché
per lo meno non siamo con Habermas. Ma Žižek è molto sicuro di
come funziona
l’immaginario e quindi di come lo si debba gestire. Il fatto che
lui
dia
importanza alla negatività e alla violenza è affascinante
però mi ha fatto male
all’anima. Per lui la rappresentazione è questa e lui ne
fa un
punto fisso. Se
la cosa è così allora non abbiamo scampo, perché
visto che l’immaginario
sociale è un’arena di scontri e di contestazioni in cui
quelli
che hanno il
potere, che controllano i mezzi di rappresentazione, che al mondo
d’oggi sono
mediatici e visivi hanno tutto in mano loro, se è così
noi abbiamo perso in
anticipo. Se per avere un immaginario che funzioni bisogna sempre
tirare in
ballo il fallocentrismo, il nazionalismo, e la misoginia --le cose di
cui parla
Lacan-- allora la fortezza Europa è inevitabile. Bisognerebbe
leggere Deleuze
sulla questione dello habit, sulla ripetizione, e fare una
critica
dell’immaginario. E’ una cosa paradossale; io vorrei un
immaginario
europeo
postnazionalistico aperto, perché vorrei che la gente (che ha
fatto processo
politico di apertura di negoziazioni di transizioni) possa farsi
sentire, avere
una presa sul reale e portare avanti questa lettura della nostra
situazione. Se
questo è impossibile per ragioni che sono strutturali
all’immaginario, se
l’immaginario funziona soltanto sul sistema dualistico di
opposizioni
fra noi e
loro, uomo e donna, allora lasciamolo perdere. Io sto sollecitando
molto: tutti
i processi di trasformazione in politiche immediate sono legati
all’etica. E’
un processo di trasformazione: non è che in un mondo che ti
bombarda con
frontiere fisse, con identità fisse, con immagini prefabbricate,
uno diventa
per forza nomadico e fluido. Questo è un lavoro, è un
processo etico di
revisione proprio delle rappresentazioni. Ho visto un documentario
della BBC
che per dimostrare l’incidenza della tubercolosi che sta
rinascendo nel
mondo e
che richiede grandi mezzi tecnologici, mostrava gli illegal aliens
che
attraversavano il deserto del Messico. La conclusione era che le
frontiere
vanno chiuse e guardate a vista. Questo è l’immaginario di
cui
tu stai
parlando, ma questo immaginario non è né fisso né
irremovibile. Quando parlo di
postnazionalismo dico che ci vorrebbero i mezzi per combattere queste
immagini
con altre rappresentazioni e noi questi mezzi non ce li abbiamo.
6. Allora il
concetto del soggetto nomade viene in
parte tradotto nella cittadinanza flessibile?
Certo. Per
renderla possibile ci vuole un soggetto
nomade perché se il soggetto è unitario non si arriva
alla trasformazione. La
cittadinanza non è collegata alla questione identitaria in
maniera diretta. Per
aprirla e renderla più nomadica sono possibili una serie di
collegamenti con
altri soggetti che magari sono dal punto di vista identitario non
nomadici.
L’esempio tipico sarebbe la forza lavoro temporanea che passa di
qua e
che sono
trattati come bestiame da lavoro. Perché questa gente che lavora
da noi non
dovrebbe essere cittadino/a per il periodo di tempo che passano qui,
qualunque
sia la loro identità? Io credo che lì abbiamo dimenticato
l’Europa. La cosa che
manca è un senso di responsabilità o anche di colpa per
gli avvenimenti della
Seconda Guerra Mondiale. Io non capisco come gli Europei di oggi
possano
dimenticare questo aspetto: questa mancanza di consciousness,
di memoria
storica fa in modo che il problema della identità è
regredito. Siamo nel primo
ottocento come discorso identitario nel contesto dell’UE. Abbiamo
dei
grossi
paradossi: progetti di cittadinanza molto avanzata e questione
identitaria in
pura regressione con una destra che ci vive sopra, e una sinistra che
neanche
capisce i termini del problema. Su questo devo dire che Negri in Impero
fa un grosso lavoro: proprio perché il capitalismo è
transnazionale dobbiamo
interrogarci su cosa vuol dire questo ritorno di identità fisse.
Bisogna
rivalutare la diaspora e avere un grosso senso di responsabilità
per ciò che ha
significato per la metà del globo questa affermazione di una
identità europea
fissa e irremovibile. Con l’affermazione di Berlusconi che dice
che
è una
civiltà superiore si torna all’inizio di quella fase del
colonialismo in cui
c’era proprio questa ammissione dell’uomo bianco. Questa
non è
colpa dell’UE ma
il risultato di un processo di fallimento del progetto europeo che lo
riduce a
una re-invenzione di paneuropeismo.
7. A
proposito dell’immaginario mancante a cui
accennavi prima, ci sono una serie di proposte politiche e
intellettuali che
arrivano dall’Italia con le quali si tenta di ripensare e
riproporre un
immaginario europeo diverso. Cosa ne pensi del concetto di Europa
minore di
Bifo, che si sviluppa proprio a partire dai soggetti minori? Ritieni
che il
movimento globale e in particolare il Forum Sociale Europeo potrebbero
essere
interessanti da questo punto di vista?
Con Bifo ho
una lunga fratellanza e siamo
completamente d’accordo sull’idea di Europa minore anche se
lui la
legge in
chiave un po’ più utopica. Il mio progetto è
costruire
delle basi storiche per
rendere quest’idea un pochino più accettabile alla
comunità scientifica. Per
quanto riguarda il Forum non riscontro che questo tipo di lavoro abbia
una
grossa incidenza sull’immaginario sociale, se per immaginario
sociale
intendiamo la rappresentazione dominante. In più, finché
il “movimento dei
movimenti” viene rappresentato in questo modo cioè
criminalizzato e
penalizzato, noi la battaglia sull’immaginario non la possiamo
neanche
iniziare: il movimento resterà vitale ma completamente
marginalizzato. Forse su
questo sono eccessivamente scettica perché chiaramente in
televisione va sempre
la stessa cosa. Il fatto è che una grossa fetta della nostra
battaglia politica
è proprio su quegli spazi mediatici che dopo l’11
settembre si
sono chiusi
davvero. Siamo in una fase di paranoia acuta caratterizzata dalla
regressione e
dall’edipalizzazione. Letto con Deleuze e Guattari si potrebbe
parlare
di un
istupidimento collettivo sostenuto dall’ informazione come potere
globale.
Quindi a livello di risonanza, questi movimenti restano molto
marginalizzati
nello spazio rappresentativo dominante. Per dare un esempio: una amica
argentina mi raccontava di questa grandissima energia che
c’è in
Argentina e
parlava di questo movimento di cui noi qua non sappiamo niente
perché quando si
parla di Argentina oggi si sente dire della crisi tremenda, della
povertà
assoluta. Però mi diceva, è un periodo formidabile in cui
ci si ritrova nelle
piazze a parlare e a discutere. Assistiamo qua ad una reinvenzione
dello spazio
pubblico, della civitas, e della cittadinanza nel senso di
spazio
condiviso con altri. Sono contenta di saperlo e ne parlerò con
tutte le persone
che incontro. Però questa rappresentazione dell’Argentina
non ha
nessuna chance
di passare nell’immaginario globale d’oggi. Penso che
qualsiasi
tentativo di
riappropriarsi dello spazio pubblico sia estremamente importante nel
redefinire
l’immaginario sociale – dalla Piazza di Mayo ai girotondi,
è la
nuova socialità
che conta.
8. E quali
sono, secondo te, le direzioni da
prendere a livello teorico?
Sul livello
teorico resterebbe una discussione di
come rimpiazzare questo immaginario. Il che riapre la questione del
simbolico.
Io penso che la critica che Deleuze e Guattari hanno fatto
dell’immaginario
Althusseriano e della funzione del simbolico in Lacan sebbene molto
complicata
da sostenere è assai pertinente. Si potrebbe cominciare a
pensare in altri
termini, tipo il lavoro che sto facendo sulla sostenibilità:
è un tipo di
discorso che implica un altro tipo di relazione sociale. Mi spiego,
invece di
fare filosofia uno fa eco-filosofia, non nel senso ecologista del
termine ma
una filosofia di un futuro possibile. Stiamo veramente esaurendo le
possibilità
di una futuribilità sia a livello ecologico puro che a livello
sociale. Se
prendiamo questa dimensione ecologica e la trasformiamo in un discorso
su che
cosa sono le cose che contano, dov’è possibile
l’azione, allora
si arriva a
pensare a un soggetto nomadico in trasformazione, cioè immerso
in flussi
trasformativi, ma entro i limiti che non sono dettati
dall’individualismo o dal
credo politico, ma dalla sostenibilità come equilibrio dei e nei
cambiamenti.
9. Secondo
te, il movimento globale potrebbe
giocare un ruolo nel pensare i futuri possibili?
Secondo me il
movimento dei movimenti punta su
queste cose. E’ un movimento molto variegato, ma lo si può
veramente leggere
con Deleuze e Guattari nel senso che consente di costruire futuri
sostenibili.
Ciò implica che siamo tutti responsabili dell’immaginario
e che
lo costruiamo.
Allora l’immaginario non è una cosa che erediti, ti piomba
addosso e ti
contamina, ma è una costruzione reale di rapporti sociali che ti
permettono di
leggere e di costruire le cose in maniera diversa. Come dicevo prima,
per
costruire un nuovo immaginario sociale occorrono nuove modalità
di sociabilità.
Io le iscrivo nell’orizzonte dei divenire possibili.
L’ecofilosofia del
soggetto è molto interessante, ma nel mondo universitario questo
è
tendenzialmente visto come pura utopia perché spiazza
l’antropocentrismo. Una
dimensione non antropocentrica vuol dire ancora una volta che
de-centralizzi il
soggetto, e questo per un europeo è inimmaginabile. Per me
è la stessa cosa
dire fine dell’eurocentrismo e dire fine
dell’antropocentrismo. Questo
spostamento di dimensioni renderebbe possibile un tipo di discussione
diversa e
allora bisognerebbe ragionare in termini di eco, non nel senso
ecologico, ma
come fanno Guattari e Spinoza, nel senso di “we are in this
together”.
Questo
non è l’universalismo eurocentrico di Kant che ha bisogno
delle
sue
macrostrutture, ma è sociabilità costruita dai soggetti
che agiscono nella
materialità diretta dei corpi.
10. Non ti
sembra che qui si corre il rischio che il
tuo lavoro venga interpretato come new age?
Infatti,
facendo il lavoro sullo spiazzamento
dell’antropocentrismo ci si trova ad un passo dalla dimensione
cosmica,
religiosa, il new age. La dimensione religiosa è molto
presente in
oriente fra le donne indiane per esempio nel lavoro di Vandana Shiva.
C’è
questa visione spirituale del mondo che io rispetto ma che non posso
condividere. Io vengo dall’Occidente, dall’Illuminismo, e
per me la
laicità è
un principio intoccabile. Quando dico sostenibilità parlo
proprio di
responsabilità civica, del fatto che non c’è
più
ossigeno, che l’acqua sta
andando buttata via. Sono cose molto materiali. Io lavoro con Deleuze e
Spinoza, cercando di rimanere nel campo della laicità e di un
discorso molto
materialista che si pone il problema della mancanza di spazi vitali. Il
tentativo di trasformare queste idee in qualcosa di concreto è
difficile ma sta
avvenendo introno a noi nei vari movimenti che cercano di porre limiti
alla
mondializzazione rapace. Lavorare sull’immaginario significa
cercare
forme di
rappresentazione adeguata alla complessità dei problemi
che
dobbiamo
affrontare. Occorre fare uno sforzo di creatività, inventarsi
concetti e modi
di rappresentazione.
11. Per
tornare al movimento globale, dopo Genova è chiaro che il
movimento sta
crescendo e raccogliendo un numero elevato di gruppi molto diversi fra
loro.
Sarebbe questo, secondo te, il momento di pensare un progetto politico
più
coerente, in modo da dare più consistenza al progetto di
trasformazione, così
da far meno riferimento ai simbolismi e più ad una riflessione
politico-teorica? Inoltre, pensi che il movimento globale potrebbe
giocare un
ruolo nell’ attirare maggiormente l’attenzione
sull’Europa sociale, che
in
questo momento si trova in secondo piano rispetto all’Europa
finanziaria?
E’
molto
complicato quello che stai dicendo, perché
da una parte è vero che un movimento di queste dimensioni, di
queste ambizioni,
dovrebbe avere un struttura teorica-politica più chiara. Questo
è quello che
dice anche Negri in Empire, cioè che questa moltitudine
va vista
all’interno di una struttura teorica che per me è molto
spinozista-deleuziana e
quindi lanciata un po’ all’interno di questo quadro teorico
concettuale. Io non
credo che la moltitudine sia una perché se si segue Deleuze fino
in fondo, si
andrebbe verso le singolarità però su basi molto
ristrette, perché questa è la
base dell’organizzazione del territorio nel senso non solo
spaziale ma
anche
temporale. Posso capire il desiderio di Negri, però, in parte
non lo condivido,
e in parte non lo vedo come una cosa realistica. Io non ci credo nelle master
narratives dominanti perché non credo siano attualizzabili.
Secondo me
questo movimento così complesso, così internamente
contraddittorio non è
canalizzabile in una dimensione globale nel senso unitario del termine.
Penso
che ciò non sia neanche necessario per renderlo efficace. Resto
sempre dalla parte
dei microgruppi e delle microcoalizioni. C’è una grossa
fetta
dell’Europa
specialmente giovane, specialmente di estrema sinistra che sarebbe
d’accordo
sulla questione di una dimensione sociale, e sulla questione
dell’Europa
politica e di chi ha il potere di rappresentarla. Ci vorrebbero degli
obbiettivi chiari e comuni, collegati a un discorso sulla questione
della
cittadinanza europea, ma anche sulla resistenza al profitto e allo
sfruttamento
capitalistico. Le possibilità ci sarebbero e io le porrei
però più nel senso di
una coalizione fra gruppi molto diversi. La cosa che mi
inquieta e che conosco dai miei anni di
militanza femminista è di cercare di collegare cose che
strutturalmente non
vanno assieme. In Italia mi sembra che ci siano delle discussioni su
punti
molto precisi, però incanalare un movimento di questa dimensione
su scala
globale secondo me è un vera utopia. La coerenza non può
venire da fondamenta
comuni, ma da negoziazioni precise su punti programmatici. Il punto
fondamentale è mettere dei limiti alla globalizzazione,
re-iscrivendovi il
principio della sostenibilità e del no-profit.
12. Forse
bisognerebbe distinguere fra il chiamarlo movimento globale e il
parlare di
un’azione planetaria che non può che essere locale.
Partendo per
esempio dal
lavoro di Mezzadra e Raimondi, si potrebbe pensare il movimento globale
non in
termini del planetario universale ma nelle sue connessioni con i
processi di
globalizzazione. Questo, come dicono i due critici, ci permetterebbe di estendere il concetto e
riconoscere
l’importanza di una genealogia di lotta assolutamente non
ancorata a
territori
occidentali ma territorialità globali: si parla qua della
rivolta nei Chiapas,
la sfida a Suharto in Indonesia, oppure la lotta contro
l’Apartheid in
Sudafrica.
Il discorso sulle genealogie, i saperi collettivi e localizzati, e le
alleanze
transnazionali sono alcuni dei capisaldi del femminismo. Pensi che
questi
potrebbero essere i punti di incontro con il movimento globale?
Uno
degli
aspetti peggiori di questa fase è la
cancellazione del contributo femminista, con eccezione di Negri e Hardt
che
dicono che il femminismo ha prodotto dei prototipi sia di politica sia
di
aggregazione sociale che possono esserci utili. La cancellazione di
almeno
quaranta anni di politiche femministe fa parte di quest’amnesia
post
’89 per
cui il libero mercato è il pensée unique di cui
parla Alain Touraine.
Già dal ’89 ma in particolare dopo l’11 settembre ho
l’impressione che bisogna
risollevare la memoria storica, perché
la velocità di questo processo di amnesia indotto dal nostro
immaginario
dell’inevitabilità del mercato unico è tremenda:
una
spinta in avanti che
cancella delle cose fondamentali. Quello che dicevi tu sulle genealogie
condivise è un lavoro molto importante; è un lavoro di
ricostruzione degli
archivi nel senso Foucaultiano di storage di memorie collettive
e di
genealogie politiche. Io credo che bisogna rimettere al centro del
dibattito
l’esperienza femminista come un prototipo per
staccare
la questione identitaria dalla questione
della soggettività che
non vuol dire essere schizofrenici. Partendo dal femminismo è
possibile
immaginare un tipo di soggetto che non ha bisogno di
un’identità
o di una
questione identitaria per funzionare in maniera molto responsabile e
collegato
ad altri. La cosa fondamentale è che queste siano delle
strutture collettive
nel senso di essere comunitari. In più, per rivisitare
l’immaginario e
trasformarlo bisogna essere in tanti. Se la visione è che questi
tanti che sono
insieme, ma ognuno di loro è sottodiviso, nomadico (il che
è la prima fase
dell’AntiEdipo: siamo in due ma entrambi siamo una
tribù), allora
non occorre essere cinquanta milioni per fare un cambiamento. Ma sulla
questione delle struttura c’è da fare un salto di
qualità, e qui il femminismo
ha prodotto un modello. Bisogna che questo modello venga studiato per
capire se
questo non può essere un modello per fare un discorso che
dall’uno va ai molti
senza passare per gli essenzialismi o per le identità fisse.
Purtroppo, quello
che io ho sentito dal movimento globale ricade negli essenzialismi
anche molto
unitari. Ci sono dei momenti in cui in un modo o nell’altro uno
si deve
staccare dalla questione identitaria per capire il problema; poco
importa se
uno lo fa attraverso ‘non sono più comunista,’
attraverso
l’esperienza
dell’anti-razzismo, attraverso una minoranza sessuale che sa che
cos’è essere
ai margini, oppure per amore del bene comune nel senso arendtiano del
termine.
Le coalizioni sono possibili e su questo penso che le donne e il
femminismo
sono veramente una delle grandi forze. Ripeto, questa attuale
cancellazione
dell’esperienza femminista è una disgrazia per tutti.
13.
Più concretamente, come vedi questo incrociarsi
fra il femminismo e il movimento globale? Quali potrebbero essere i
contributi
del femminismo, in particolare a partire dalla scissione
identità/soggettività?
Il
femminismo
ha frammentato l’identità femminile e
ha prodotto sia un modello che una frammentazione positiva
dell’identità
femminile. Quando io parlo di donne del dopo-donna voglio dire
che una
ha preso una certa distanza senza precipitare nelle schizofrenie e
senza
necessariamente andare verso l’immaginario transessuale. A
partire da
questo
distanziarsi dal femminile il femminismo ha prodotto a livello
epistemico e
metodologico dei saperi e varie forme di politica. Per me ciò
vuol dire andare
verso un materialismo corporeo che ci permette di essere nel qui ed
ora, e al
tempo stesso non essere un soggetto molecolarizzato individualista. Io
tento di
pensare un prototipo di un soggetto che ha una genealogia, si ricorda
cosa sia
la dicotomia maschile-femminile, ha questo legame immaginario con le
strutture,
e però allo stesso tempo molta distanza critica capace di
produrre un tipo di
soggettività che non si appoggia sull’identità. Una
tale
soggettività è molto
più evoluta sul piano etico e molto più all’erta
sul
piano politico. Secondo
me, nel Forum si potrebbero iniziare a pensare vari modelli di
identità europei
possibili, o discutere di una Europa politica leggendo il politico a
partire
dalla storia del femminismo perché il politico vuol dire corpi,
vuol dire il
personale. Va benissimo dire “Io voglio salvare il
pianeta”, “Sono
solidale con
il Nicaragua” o “Sono contro la Nike”, ma
vediamo un po’ come
siamo ai
livelli di relazioni immediate e concrete. E’ proprio questa
concretezza
materiale del femminismo collegata ad una grande flessibilità
delle strutture e
alla produzione del sapere che è la sua forza. Io il movimento
lo vedo anche
come una comunità discorsiva, gente proveniente da storie
diverse però con un
destino politico comune, e oggi, in un’epoca di frammentazioni e
di
interessi
dominati dei media, occorre ricostruire l’immaginario. Su questo
il
femminismo
ha un capitale di lavoro di cui nessuno sta usufruendo. Non è
che la
ricostruzione dell’immaginario sia così enorme e
impensabile. Se
ci mettessimo
d’accordo sui termini del progetto e potessimo collegare i saperi
si
potrebbe
fare e molto. Ma per poter farlo si deve accettare di essere situati e
posizionati qui ed ora, e agire di conseguenza. Quindi il mio appello
al
movimento globale e al FSE è di ricostruire le alleanze che
negli anni settanta
c’erano. Viviamo in Europa, ma ho la sensazione che questo tema
non
interessi
alla gente, mentre la cose più astratte tipo il capitalismo
eccitano. Il fatto
che l’Europa come processo trasformativo sollevi così
pochi
interessi è
collegato a questa mancanza dell’immaginario europeo. E’ in
questo
spazio in
cui mancano alternative reali che io vorrei coniugare il
postnazionalismo con i
soggetti nomadi e il femminismo. L’Europa come spazio di
trasformazioni
possibili è ancora tutta da giocare.
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