Managing Migrants’ Mobility in Central and Eastern Europe:
A Policy Analysis of International Organization for Migration’s Practices

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in DeriveApprodi (2002), nr. 22, pp. 137 - 143

L’Europa non ci fa sognare. Intervista a Rosi Braidotti

di Rutvica Andrijasevic


1. Nel tuo ultimo libro Nuovi soggetti nomadi presenti quello che chiami il progetto europeo postnazionale. Qui affermi la necessità di un nuovo immaginario sociale europeo e parli delle strategie politiche per realizzarlo. Ci spieghi un po’ meglio questo progetto?

Non sono la sola a credere che ci voglia una riflessione più approfondita sulla questione della cittadinanza europea. Per esempio L’Istituto Universitario Europeo di Fiesole e la London School of Economics, comprese tantissime altre università in giro per il mondo, ci stanno lavorando in maniera molto seria e molto legalistica. Quando ho cominciato a lavorarci da filosofa, diciamo da un punto di vista sociale, cioè di stampo più culturale, mi sono trovata molto in imbarazzo perché sono cose molto avanzate, molto tecniche, o addirittura protocollari. Un po’ ho abbandonato la discussione tecnica perché non ho le competenze necessarie per affrontarle, e perché mi sono resa conto che la massa di lavoro che loro stavano facendo non passa nella cultura pubblica, e che non se ne parla molto proprio perché è così tecnica e giuridica. E da lì che ho cominciato una riflessione su come mai l’immaginario sociale sull’Europa è così povero: non ci fa sognare e non ci eccita. Ho iniziato a lavorare su come costruire un immaginario sociale che ci aiuti a prendere sul serio questa problematica. Questo è un primo livello di riflessione ed è collegato alla questione nazionalistica: come si fa ad accendere l’immaginazione della gente, a farla sognare, a far sì che un soggetto di ricerca, un tema politico diventi una passione? Perché il nazionalismo ovviamente non è una cosa gradevole, ma quell’immaginario non si riesce a farlo scaturire se non c’è nulla che leghi, che faccia in modo che questo campo di studi, questa realtà politica diventi una passione. Alcuni pensatori Sloveni dicono che l’Europa, come è immaginata ora, non funzionerà mai proprio perché non accende l’immaginazione e che solo l’identità nazionale può farlo. Se, come dice Žižek, l’immaginario è inevitabilmente connesso a nazionalismi e ha radici, allora siamo nei guai. Ma c’è tutta una discussione da fare sulla nozione dell’immaginario, partendo da Deleuze e la sua critica a Lacan. Si apre così un altro campo di ricerca dove questo lavoro si collega al nomadismo filosofico e alla critica di quella griglia espositiva che per l’immaginario intende la rappresentazione collegata a un soggetto identitario.

2. Tu sottolinei la povertà dell’immaginario Europeo e ti proponi di pensare e di risvegliare delle passioni per un progetto postnazionale diverso che, secondo te, appartiene al futuro. Tuttavia, noi in Europa stiamo già vivendo una realtà postnazionale. Forse, allora, un progetto centrato sull’aspetto postnazionale non basta più e va ripensato? 

L’idea di postnazionale è fondata sui testi originari di Altiero Spinelli. Io faccio una lettura teorica di quelli che erano i testi fondatori dell’Unione, scritti da ebrei o comunisti antifascisti, e che avevano identificato nella complicità fra lo Stato e una certa destra il cataclisma della Seconda Guerra Mondiale. E’ un tipo di pensiero che io collego alla diaspora ebraica e all’antifascismo in Europa occidentale e lo considero una fonte importantissima di ispirazione teorico-politica. Oggi non si parla più delle radici antifasciste di un certo tipo di pensiero politico. E’ come se la diaspora fosse stata sconfitta. Questo continente ha deciso di scegliere l’amnesia e l’oblio; la negazione della propria storia è una specie di capitolo chiuso e io vorrei riaprirlo con il postnazionalismo che, per me, è una critica del razzismo di Stato. Come mai allora non se ne parla più se l’Unione Europea è nata da lì? Il mio postnazionalismo è fondato sulle basi storiche che sto rileggendo per due ragioni. Uno, per fare in modo che questi testi di Spinelli vengano letti. Spinelli era collegato alla famiglia Hirschman, quindi a un’altra grossa fetta di storia sia della resistenza che della diaspora e dell’olocausto, e ha un senso dell’Europa come terzo spazio. Due, per scuotere le tendenze alla parificazione storica che io non capisco se sono dovute al revisionismo o all’amnesia. Per spiegarmi, questo tipo di discorso, di cui Berlusconi è un eminente rappresentante, che dice che noi abbiamo avuto il fascismo e loro hanno avuto lo stalinismo e così siamo pari: noi Auschwitz e loro Gulag. Questa, secondo me, è una violenza storica. E’ una forma sia di ignoranza che di violenza epistemica che crea false simmetrie a quindi fabbrica illusioni. Quello che manca è la dimensione di uno spazio europeo postnazionalista nel senso di anti-statalista. Lo sottolineo proprio perché il nazionalismo demenziale di questo continente è la radice della Seconda Guerra Mondiale. Quindi l’Unione Europea nasce da questo postnazionalismo che, mi preme sottolineare, non è transnazionalismo.

3. Tu sostieni che il postnazionalismo è un superamento degli Stati come li abbiamo percepiti, e recuperi le radici antifasciste dell’Europa legate alla costruzione dell’Unione Europea, ma resta il fatto che l’UE sta andando in un’altra direzione. Perché c’è una serie di studi che dimostra come l’UE sta assumendo una serie di ruoli che prima erano degli Stati nazionali, fra cui quello che maggiormente viene sottolineato è la questione dei confini, in particolare la riconcettualizzazione e il rafforzamento dei confini verso l’est. Pensi allora che l’interpretazione che noi diamo della componente nazionale e al postnazionalismo dovrebbe venire riesaminata in relazione ai cambiamenti che stanno avvenendo a livello istituzionale dell’UE?

Tengo a dire che non voglio fare del postnazionalismo una questione identitaria: quando parlo di memoria storica parlo di soggettività politica. Io credo che la questione del postnazionalismo debba essere una dimensione, non dico formale, ma sicuramente giuridica e tecnica. Per me questo si riconnette alla questione della cittadinanza europea. La cittadinanza europea non può essere fondata su basi nazionali, perché è transnazionale. Quando io dico postnazionalismo a livello di cittadinanza vuol dire cittadinanze flessibili: uno non deve essere, come dice Paul Gilroy, nato qui, oppure del colore o della religione giusta, per appartenere a quella cittadinanza, perché il concetto di cittadinanza deve essere un concetto di partecipazione su basi negoziabili. Non si capisce perché la cittadinanza deve essere una cosa a tempo pieno al cento per cento. Questo concetto di cittadinanza non l’ho inventato io ma sto citando qua il lavoro di Ulrich Preuss. Da come lo percepisco io, il problema è che ci si scontra con la questione dell’identità, e qui si torna sulla questione dell’immaginario. Noi dobbiamo poter immaginarci (per questo credo che il nomadismo sia l’unica soluzione possibile per gli europei) una situazione in cui il tuo senso di cittadinanza, o meglio la tua cittadinanza nel senso di soggettività giuridica e politica, sia staccata dal senso di identità. Io sono contraria a questa chiusura per cui sei e appartieni: questa è una follia, è una forma di microfascismo. Geopoliticamente si tratta di una chiusura assoluta: sono di qui, vengo da qui, questa è la mia terra, questa è la mia lingua e perciò appartengo. Quindi, per me, il postnazionalismo è una critica del soggetto unitario dove per soggetto unitario intendo la cittadinanza, la politica e la questione identitaria. Per un europeo questo vuol dire mettere fine al nazionalismo. Io vorrei scindere l’essere dalla cittadinanza: io leggo l’Europa come un tentativo di aprire un varco fra questi due concetti e magari anche metterli in contraddizione. Ma questo implica un grosso salto di qualità nella nostra immagine di noi stessi, e come dici tu, questo lavoro non sta succedendo perché pochissimi o nessuno dei poteri politici attuali lo può fare. Ed è per questo che credo che la questione del postnazionalismo vada esaminata.

4. In merito alla questione dell’immaginario e dell’identità prima accennavi al fatto che sono temi che, o non sono affrontati affatto, o sono affrontati in maniera troppo tecnica. Però è anche importante notare che a livello delle istituzioni europee (per esempio i documenti che escono dalla Commissione Europea) c’è una dimensione molto legata all’immaginario. Guardiamo ad esempio al discorso sull’immigrazione e sui confini: attraverso un discorso molto populista si sta costruendo la fortezza Europa, simbolica e materiale, il che non vuol dire solo il rafforzamento dei confini ma anche la costruzione dell’appartenenza dei cittadini europei ad uno spazio e ad un destino comune. Anche qui si sta costruendo un immaginario europeo però molto diverso da quello di cui parli tu. Come leggi questi cambiamenti in corso?

Il problema è che questa Europa non ha potere politico. L’Europa politica non si è fatta. Io trovo paradossale che dicendo questo mi trovo alleata con Habermas. Un modo di rispondere potrebbe essere che la dimensione europea non può andare avanti perché non c’è motore politico e non c’è volontà di completare questa Unione con un senso di cittadinanza globale ma flessibile all’interno di questa Fortezza. Se questa volontà politica non c’è, allora bisogna cominciare dicendo che quello che non sta funzionando è che si sta smantellando l’idea di uno spazio europeo postnazionalista, reintroducendo l’idea di un’Europa delle nazioni che è un’idea classica ottocentesca. Questo è quello che sta succedendo sotto l’influenza della destra. L’Europa delle nazioni, l’Europa delle regioni, non è assolutamente uno spazio postnazionalistico, ma ipernazionalistico all’estremo. Perché non si riesce a fare un’Europa politica? Perché manigoldi come Berlusconi hanno il potere di frenare questo processo privando, secondo me, lo spazio europeo di questa dimensione più progressiva, ma anche più trasformatrice, qualcosa che sarebbe davvero un processo di evoluzione. Secondo me, quindi, manca questa dimensione, per cui si può anche essere d’accordo nel dire che l’UE sta sbagliando, ma io preferirei dire non sta succedendo questo processo, perché non c’è la volontà politica di portarlo avanti. Però per fare la dimensione politica bisogna affrontare la questione della polizia, la questione della difesa, e la questione delle frontiere. L’Europa non ha, e secondo me non dovrebbe avere, questa dimensione di autoprotezione, per cui tutta la questione delle frontiere è caricata da questo immaginario politico molto contraddittorio. La questione delle frontiere è uno dei grossi disastri di quello che sta accadendo in questa fase. Non credo che sia possibile non avere linee di distinzione sulle frontiere. Credo che nessun testo di gestione (non di politica) possa dire cancelliamo le frontiere: sarebbe inimmaginabile. Tu dici che l’UE ha rimpiazzato gli Stati nazioni, ma io vedo anche gli Stati nazionali che utilizzano come pretesto la dimensione europea per chiudere le frontiere. La creazione dell’Europa come fortezza per me è la negazione della dimensione europea.

5. Non è una questione di cancellare le frontiere, ma è che sulle frontiere si sta svolgendo una lotta anche per quanto riguarda l’immaginario. Le frontiere le possiamo interpretare come i confini materiali, però i confini sono anche luoghi di una lotta sull’immaginario che sanziona l’appartenenza simbolica e materiale.

In questo caso per me viene meno l’immaginario europeo. Sono d’accordo che l’immaginario è il luogo di una grande battaglia e perciò l’arena di grandi scontri. La mia osservazione era questa: all’interno del lavoro dell’immaginario ci sono contraddizioni fra rappresentazioni che non sono solo discorsive ma rappresentazioni materiali. In questo senso si può lavorare con Althusser, sulla dimensione classica dell’immaginario. Il problema è che all’interno di questo non c’è un input della gente che vorrebbe trasformare quell’immaginario in qualcos’altro, per esempio, di nomadico, di postnazionalistico, di aperto. Che questa dimensione qui non ci sia, me ne sono resa conto in maniera molto dolorosa a Rotterdam quando ho incontrato Žižek. Il suo immaginario è quello del primo Althusser, del primo Lacan: va benissimo perché per lo meno non siamo con Habermas. Ma Žižek è molto sicuro di come funziona l’immaginario e quindi di come lo si debba gestire. Il fatto che lui dia importanza alla negatività e alla violenza è affascinante però mi ha fatto male all’anima. Per lui la rappresentazione è questa e lui ne fa un punto fisso. Se la cosa è così allora non abbiamo scampo, perché visto che l’immaginario sociale è un’arena di scontri e di contestazioni in cui quelli che hanno il potere, che controllano i mezzi di rappresentazione, che al mondo d’oggi sono mediatici e visivi hanno tutto in mano loro, se è così noi abbiamo perso in anticipo. Se per avere un immaginario che funzioni bisogna sempre tirare in ballo il fallocentrismo, il nazionalismo, e la misoginia --le cose di cui parla Lacan-- allora la fortezza Europa è inevitabile. Bisognerebbe leggere Deleuze sulla questione dello habit, sulla ripetizione, e fare una critica dell’immaginario. E’ una cosa paradossale; io vorrei un immaginario europeo postnazionalistico aperto, perché vorrei che la gente (che ha fatto processo politico di apertura di negoziazioni di transizioni) possa farsi sentire, avere una presa sul reale e portare avanti questa lettura della nostra situazione. Se questo è impossibile per ragioni che sono strutturali all’immaginario, se l’immaginario funziona soltanto sul sistema dualistico di opposizioni fra noi e loro, uomo e donna, allora lasciamolo perdere. Io sto sollecitando molto: tutti i processi di trasformazione in politiche immediate sono legati all’etica. E’ un processo di trasformazione: non è che in un mondo che ti bombarda con frontiere fisse, con identità fisse, con immagini prefabbricate, uno diventa per forza nomadico e fluido. Questo è un lavoro, è un processo etico di revisione proprio delle rappresentazioni. Ho visto un documentario della BBC che per dimostrare l’incidenza della tubercolosi che sta rinascendo nel mondo e che richiede grandi mezzi tecnologici, mostrava gli illegal aliens che attraversavano il deserto del Messico. La conclusione era che le frontiere vanno chiuse e guardate a vista. Questo è l’immaginario di cui tu stai parlando, ma questo immaginario non è né fisso né irremovibile. Quando parlo di postnazionalismo dico che ci vorrebbero i mezzi per combattere queste immagini con altre rappresentazioni e noi questi mezzi non ce li abbiamo.

6. Allora il concetto del soggetto nomade viene in parte tradotto nella cittadinanza flessibile?

Certo. Per renderla possibile ci vuole un soggetto nomade perché se il soggetto è unitario non si arriva alla trasformazione. La cittadinanza non è collegata alla questione identitaria in maniera diretta. Per aprirla e renderla più nomadica sono possibili una serie di collegamenti con altri soggetti che magari sono dal punto di vista identitario non nomadici. L’esempio tipico sarebbe la forza lavoro temporanea che passa di qua e che sono trattati come bestiame da lavoro. Perché questa gente che lavora da noi non dovrebbe essere cittadino/a per il periodo di tempo che passano qui, qualunque sia la loro identità? Io credo che lì abbiamo dimenticato l’Europa. La cosa che manca è un senso di responsabilità o anche di colpa per gli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale. Io non capisco come gli Europei di oggi possano dimenticare questo aspetto: questa mancanza di consciousness, di memoria storica fa in modo che il problema della identità è regredito. Siamo nel primo ottocento come discorso identitario nel contesto dell’UE. Abbiamo dei grossi paradossi: progetti di cittadinanza molto avanzata e questione identitaria in pura regressione con una destra che ci vive sopra, e una sinistra che neanche capisce i termini del problema. Su questo devo dire che Negri in Impero fa un grosso lavoro: proprio perché il capitalismo è transnazionale dobbiamo interrogarci su cosa vuol dire questo ritorno di identità fisse. Bisogna rivalutare la diaspora e avere un grosso senso di responsabilità per ciò che ha significato per la metà del globo questa affermazione di una identità europea fissa e irremovibile. Con l’affermazione di Berlusconi che dice che è una civiltà superiore si torna all’inizio di quella fase del colonialismo in cui c’era proprio questa ammissione dell’uomo bianco. Questa non è colpa dell’UE ma il risultato di un processo di fallimento del progetto europeo che lo riduce a una re-invenzione di paneuropeismo.

7. A proposito dell’immaginario mancante a cui accennavi prima, ci sono una serie di proposte politiche e intellettuali che arrivano dall’Italia con le quali si tenta di ripensare e riproporre un immaginario europeo diverso. Cosa ne pensi del concetto di Europa minore di Bifo, che si sviluppa proprio a partire dai soggetti minori? Ritieni che il movimento globale e in particolare il Forum Sociale Europeo potrebbero essere interessanti da questo punto di vista?

Con Bifo ho una lunga fratellanza e siamo completamente d’accordo sull’idea di Europa minore anche se lui la legge in chiave un po’ più utopica. Il mio progetto è costruire delle basi storiche per rendere quest’idea un pochino più accettabile alla comunità scientifica. Per quanto riguarda il Forum non riscontro che questo tipo di lavoro abbia una grossa incidenza sull’immaginario sociale, se per immaginario sociale intendiamo la rappresentazione dominante. In più, finché il “movimento dei movimenti” viene rappresentato in questo modo cioè criminalizzato e penalizzato, noi la battaglia sull’immaginario non la possiamo neanche iniziare: il movimento resterà vitale ma completamente marginalizzato. Forse su questo sono eccessivamente scettica perché chiaramente in televisione va sempre la stessa cosa. Il fatto è che una grossa fetta della nostra battaglia politica è proprio su quegli spazi mediatici che dopo l’11 settembre si sono chiusi davvero. Siamo in una fase di paranoia acuta caratterizzata dalla regressione e dall’edipalizzazione. Letto con Deleuze e Guattari si potrebbe parlare di un istupidimento collettivo sostenuto dall’ informazione come potere globale. Quindi a livello di risonanza, questi movimenti restano molto marginalizzati nello spazio rappresentativo dominante. Per dare un esempio: una amica argentina mi raccontava di questa grandissima energia che c’è in Argentina e parlava di questo movimento di cui noi qua non sappiamo niente perché quando si parla di Argentina oggi si sente dire della crisi tremenda, della povertà assoluta. Però mi diceva, è un periodo formidabile in cui ci si ritrova nelle piazze a parlare e a discutere. Assistiamo qua ad una reinvenzione dello spazio pubblico, della civitas, e della cittadinanza nel senso di spazio condiviso con altri. Sono contenta di saperlo e ne parlerò con tutte le persone che incontro. Però questa rappresentazione dell’Argentina non ha nessuna chance di passare nell’immaginario globale d’oggi. Penso che qualsiasi tentativo di riappropriarsi dello spazio pubblico sia estremamente importante nel redefinire l’immaginario sociale – dalla Piazza di Mayo ai girotondi, è la nuova socialità che conta.

8. E quali sono, secondo te, le direzioni da prendere a livello teorico?

Sul livello teorico resterebbe una discussione di come rimpiazzare questo immaginario. Il che riapre la questione del simbolico. Io penso che la critica che Deleuze e Guattari hanno fatto dell’immaginario Althusseriano e della funzione del simbolico in Lacan sebbene molto complicata da sostenere è assai pertinente. Si potrebbe cominciare a pensare in altri termini, tipo il lavoro che sto facendo sulla sostenibilità: è un tipo di discorso che implica un altro tipo di relazione sociale. Mi spiego, invece di fare filosofia uno fa eco-filosofia, non nel senso ecologista del termine ma una filosofia di un futuro possibile. Stiamo veramente esaurendo le possibilità di una futuribilità sia a livello ecologico puro che a livello sociale. Se prendiamo questa dimensione ecologica e la trasformiamo in un discorso su che cosa sono le cose che contano, dov’è possibile l’azione, allora si arriva a pensare a un soggetto nomadico in trasformazione, cioè immerso in flussi trasformativi, ma entro i limiti che non sono dettati dall’individualismo o dal credo politico, ma dalla sostenibilità come equilibrio dei e nei cambiamenti.

9. Secondo te, il movimento globale potrebbe giocare un ruolo nel pensare i futuri possibili?

Secondo me il movimento dei movimenti punta su queste cose. E’ un movimento molto variegato, ma lo si può veramente leggere con Deleuze e Guattari nel senso che consente di costruire futuri sostenibili. Ciò implica che siamo tutti responsabili dell’immaginario e che lo costruiamo. Allora l’immaginario non è una cosa che erediti, ti piomba addosso e ti contamina, ma è una costruzione reale di rapporti sociali che ti permettono di leggere e di costruire le cose in maniera diversa. Come dicevo prima, per costruire un nuovo immaginario sociale occorrono nuove modalità di sociabilità. Io le iscrivo nell’orizzonte dei divenire possibili. L’ecofilosofia del soggetto è molto interessante, ma nel mondo universitario questo è tendenzialmente visto come pura utopia perché spiazza l’antropocentrismo. Una dimensione non antropocentrica vuol dire ancora una volta che de-centralizzi il soggetto, e questo per un europeo è inimmaginabile. Per me è la stessa cosa dire fine dell’eurocentrismo e dire fine dell’antropocentrismo. Questo spostamento di dimensioni renderebbe possibile un tipo di discussione diversa e allora bisognerebbe ragionare in termini di eco, non nel senso ecologico, ma come fanno Guattari e Spinoza, nel senso di “we are in this together”. Questo non è l’universalismo eurocentrico di Kant che ha bisogno delle sue macrostrutture, ma è sociabilità costruita dai soggetti che agiscono nella materialità diretta dei corpi.

10. Non ti sembra che qui si corre il rischio che il tuo lavoro venga interpretato come new age?

Infatti, facendo il lavoro sullo spiazzamento dell’antropocentrismo ci si trova ad un passo dalla dimensione cosmica, religiosa, il new age. La dimensione religiosa è molto presente in oriente fra le donne indiane per esempio nel lavoro di Vandana Shiva. C’è questa visione spirituale del mondo che io rispetto ma che non posso condividere. Io vengo dall’Occidente, dall’Illuminismo, e per me la laicità è un principio intoccabile. Quando dico sostenibilità parlo proprio di responsabilità civica, del fatto che non c’è più ossigeno, che l’acqua sta andando buttata via. Sono cose molto materiali. Io lavoro con Deleuze e Spinoza, cercando di rimanere nel campo della laicità e di un discorso molto materialista che si pone il problema della mancanza di spazi vitali. Il tentativo di trasformare queste idee in qualcosa di concreto è difficile ma sta avvenendo introno a noi nei vari movimenti che cercano di porre limiti alla mondializzazione rapace. Lavorare sull’immaginario significa cercare forme di rappresentazione adeguata alla complessità dei problemi che dobbiamo affrontare. Occorre fare uno sforzo di creatività, inventarsi concetti e modi di rappresentazione. 

11. Per tornare al movimento globale, dopo Genova è chiaro che il movimento sta crescendo e raccogliendo un numero elevato di gruppi molto diversi fra loro. Sarebbe questo, secondo te, il momento di pensare un progetto politico più coerente, in modo da dare più consistenza al progetto di trasformazione, così da far meno riferimento ai simbolismi e più ad una riflessione politico-teorica? Inoltre, pensi che il movimento globale potrebbe giocare un ruolo nell’ attirare maggiormente l’attenzione sull’Europa sociale, che in questo momento si trova in secondo piano rispetto all’Europa finanziaria?

E’ molto complicato quello che stai dicendo, perché da una parte è vero che un movimento di queste dimensioni, di queste ambizioni, dovrebbe avere un struttura teorica-politica più chiara. Questo è quello che dice anche Negri in Empire, cioè che questa moltitudine va vista all’interno di una struttura teorica che per me è molto spinozista-deleuziana e quindi lanciata un po’ all’interno di questo quadro teorico concettuale. Io non credo che la moltitudine sia una perché se si segue Deleuze fino in fondo, si andrebbe verso le singolarità però su basi molto ristrette, perché questa è la base dell’organizzazione del territorio nel senso non solo spaziale ma anche temporale. Posso capire il desiderio di Negri, però, in parte non lo condivido, e in parte non lo vedo come una cosa realistica. Io non ci credo nelle master narratives dominanti perché non credo siano attualizzabili. Secondo me questo movimento così complesso, così internamente contraddittorio non è canalizzabile in una dimensione globale nel senso unitario del termine. Penso che ciò non sia neanche necessario per renderlo efficace. Resto sempre dalla parte dei microgruppi e delle microcoalizioni. C’è una grossa fetta dell’Europa specialmente giovane, specialmente di estrema sinistra che sarebbe d’accordo sulla questione di una dimensione sociale, e sulla questione dell’Europa politica e di chi ha il potere di rappresentarla. Ci vorrebbero degli obbiettivi chiari e comuni, collegati a un discorso sulla questione della cittadinanza europea, ma anche sulla resistenza al profitto e allo sfruttamento capitalistico. Le possibilità ci sarebbero e io le porrei però più nel senso di una coalizione fra gruppi molto diversi. La cosa che mi  inquieta e che conosco dai miei anni di militanza femminista è di cercare di collegare cose che strutturalmente non vanno assieme. In Italia mi sembra che ci siano delle discussioni su punti molto precisi, però incanalare un movimento di questa dimensione su scala globale secondo me è un vera utopia. La coerenza non può venire da fondamenta comuni, ma da negoziazioni precise su punti programmatici. Il punto fondamentale è mettere dei limiti alla globalizzazione, re-iscrivendovi il principio della sostenibilità e del no-profit.

12. Forse bisognerebbe distinguere fra il chiamarlo movimento globale e il parlare di un’azione planetaria che non può che essere locale. Partendo per esempio dal lavoro di Mezzadra e Raimondi, si potrebbe pensare il movimento globale non in termini del planetario universale ma nelle sue connessioni con i processi di globalizzazione. Questo, come dicono i due critici, ci permetterebbe di    estendere il concetto e riconoscere l’importanza di una genealogia di lotta assolutamente non ancorata a territori occidentali ma territorialità globali: si parla qua della rivolta nei Chiapas, la sfida a Suharto in Indonesia, oppure la lotta contro l’Apartheid in Sudafrica. Il discorso sulle genealogie, i saperi collettivi e localizzati, e le alleanze transnazionali sono alcuni dei capisaldi del femminismo. Pensi che questi potrebbero essere i punti di incontro con il movimento globale?

Uno degli aspetti peggiori di questa fase è la cancellazione del contributo femminista, con eccezione di Negri e Hardt che dicono che il femminismo ha prodotto dei prototipi sia di politica sia di aggregazione sociale che possono esserci utili. La cancellazione di almeno quaranta anni di politiche femministe fa parte di quest’amnesia post ’89 per cui il libero mercato è il pensée unique di cui parla Alain Touraine. Già dal ’89 ma in particolare dopo l’11 settembre ho l’impressione che bisogna risollevare la memoria storica,  perché la velocità di questo processo di amnesia indotto dal nostro immaginario dell’inevitabilità del mercato unico è tremenda: una spinta in avanti che cancella delle cose fondamentali. Quello che dicevi tu sulle genealogie condivise è un lavoro molto importante; è un lavoro di ricostruzione degli archivi nel senso Foucaultiano di storage di memorie collettive e di genealogie politiche. Io credo che bisogna rimettere al centro del dibattito l’esperienza femminista come un prototipo per  staccare la questione identitaria dalla questione della soggettività che non vuol dire essere schizofrenici. Partendo dal femminismo è possibile immaginare un tipo di soggetto che non ha bisogno di un’identità o di una questione identitaria per funzionare in maniera molto responsabile e collegato ad altri. La cosa fondamentale è che queste siano delle strutture collettive nel senso di essere comunitari. In più, per rivisitare l’immaginario e trasformarlo bisogna essere in tanti. Se la visione è che questi tanti che sono insieme, ma ognuno di loro è sottodiviso, nomadico (il che è la prima fase dell’AntiEdipo: siamo in due ma entrambi siamo una tribù), allora non occorre essere cinquanta milioni per fare un cambiamento. Ma sulla questione delle struttura c’è da fare un salto di qualità, e qui il femminismo ha prodotto un modello. Bisogna che questo modello venga studiato per capire se questo non può essere un modello per fare un discorso che dall’uno va ai molti senza passare per gli essenzialismi o per le identità fisse. Purtroppo, quello che io ho sentito dal movimento globale ricade negli essenzialismi anche molto unitari. Ci sono dei momenti in cui in un modo o nell’altro uno si deve staccare dalla questione identitaria per capire il problema; poco importa se uno lo fa attraverso ‘non sono più comunista,’ attraverso l’esperienza dell’anti-razzismo, attraverso una minoranza sessuale che sa che cos’è essere ai margini, oppure per amore del bene comune nel senso arendtiano del termine. Le coalizioni sono possibili e su questo penso che le donne e il femminismo sono veramente una delle grandi forze. Ripeto, questa attuale cancellazione dell’esperienza femminista è una disgrazia per tutti.

13. Più concretamente, come vedi questo incrociarsi fra il femminismo e il movimento globale? Quali potrebbero essere i contributi del femminismo, in particolare a partire dalla scissione identità/soggettività?

Il femminismo ha frammentato l’identità femminile e ha prodotto sia un modello che una frammentazione positiva dell’identità femminile. Quando io parlo di donne del dopo-donna voglio dire che una ha preso una certa distanza senza precipitare nelle schizofrenie e senza necessariamente andare verso l’immaginario transessuale. A partire da questo distanziarsi dal femminile il femminismo ha prodotto a livello epistemico e metodologico dei saperi e varie forme di politica. Per me ciò vuol dire andare verso un materialismo corporeo che ci permette di essere nel qui ed ora, e al tempo stesso non essere un soggetto molecolarizzato individualista. Io tento di pensare un prototipo di un soggetto che ha una genealogia, si ricorda cosa sia la dicotomia maschile-femminile, ha questo legame immaginario con le strutture, e però allo stesso tempo molta distanza critica capace di produrre un tipo di soggettività che non si appoggia sull’identità. Una tale soggettività è molto più evoluta sul piano etico e molto più all’erta sul piano politico. Secondo me, nel Forum si potrebbero iniziare a pensare vari modelli di identità europei possibili, o discutere di una Europa politica leggendo il politico a partire dalla storia del femminismo perché il politico vuol dire corpi, vuol dire il personale. Va benissimo dire “Io voglio salvare il pianeta”, “Sono solidale con il Nicaragua” o “Sono contro la Nike”, ma vediamo un po’ come siamo ai livelli di relazioni immediate e concrete. E’ proprio questa concretezza materiale del femminismo collegata ad una grande flessibilità delle strutture e alla produzione del sapere che è la sua forza. Io il movimento lo vedo anche come una comunità discorsiva, gente proveniente da storie diverse però con un destino politico comune, e oggi, in un’epoca di frammentazioni e di interessi dominati dei media, occorre ricostruire l’immaginario. Su questo il femminismo ha un capitale di lavoro di cui nessuno sta usufruendo. Non è che la ricostruzione dell’immaginario sia così enorme e impensabile. Se ci mettessimo d’accordo sui termini del progetto e potessimo collegare i saperi si potrebbe fare e molto. Ma per poter farlo si deve accettare di essere situati e posizionati qui ed ora, e agire di conseguenza. Quindi il mio appello al movimento globale e al FSE è di ricostruire le alleanze che negli anni settanta c’erano. Viviamo in Europa, ma ho la sensazione che questo tema non interessi alla gente, mentre la cose più astratte tipo il capitalismo eccitano. Il fatto che l’Europa come processo trasformativo sollevi così pochi interessi è collegato a questa mancanza dell’immaginario europeo. E’ in questo spazio in cui mancano alternative reali che io vorrei coniugare il postnazionalismo con i soggetti nomadi e il femminismo. L’Europa come spazio di trasformazioni possibili è ancora tutta da giocare. 


updated 8 April 2005 located at www.policy.hu/andrijasevic/

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